In tutta Italia, ma anche nel resto del mondo, c’è molta impazienza per un ritorno alla normalità che grazie ai vaccini sembra avvicinarsi. Nonostante i problemi di approvvigionamento e di gestione delle turnazioni più volte menzionati dai media, emergono alcuni dati incoraggianti, forniti dall’Istituto per gli studi di politica internazionale (ISPI).
A raccontare i dati dell’ISPI ci ha pensato la giornalista del Corriere della Sera Milena Gabanelli nel suo Data Room. Dalla sua lettura, risulta chiaro come la campagna di vaccinazione prometta un buon esito, auspicando un possibile ritorno alla normalità entro l’inizio dell’estate. Nei paragrafi che seguono, è stato riassunto quanto analizzato dalla firma del Corriere.
Indice dell'articolo
Quando finirà la pandemia?
La risposta è che molto, se non tutto, dipende dalla rapidità con la quale verranno somministrati i vaccini. L’obiettivo è quello di declassare la potenza del virus e trasformarlo in qualcosa di molto simile all’influenza di stagione. Questo significa dover passare, secondo uno studio del ricercatore Matteo Villa (ISPI), dalle attuali 11 vittime ogni 1000 contagiati, con una letalità dell’1,15%, ad un solo decesso, pari allo 0,1%, che è appunto l’incidenza dell’influenza.
A queste percentuali si è arrivati tramite calcoli matematici che hanno tenuto in considerazione non soltanto i soggetti risultati positivi ma anche quelli che sarebbero stati contagiati pur non avendo fatto il tampone, basandosi sui test sierologici.
Soltanto quando la letalità del virus sarà scesa gli ospedali potranno riprendere la loro regolare routine, fatta non solo di emergenze e terapie intensive, ma anche di interventi, cure, diagnosi, visite ed esami. In altre parole di tutto ciò che con l’arrivo del virus è stato interrotto, sospeso e rimandato.
Attualmente i pazienti positivi al coronavirus occupano il 40% dei posti letto nella gran parte degli ospedali italiani e in quelle zone dove la situazione è più grave arrivano a superare il 50%.
Riduzione della letalità o immunità di gregge?
Secondo gli esperti raggiungere l’immunità di gregge è un obiettivo poco realistico da perseguire. Si parla di tale condizione quando un numero importante di persone sia stato vaccinato, tale da impedire che il virus continui a circolare.
Traducendo il concetto in numeri, per raggiungere l’immunità di gregge sarebbe necessario che una percentuale tra il 60% e il 72% della popolazione venga vaccinata, a patto che il vaccino abbia un’efficacia pari al 100% e una copertura di lunga durata.
Attualmente invece la situazione è molto diversa, se è vero infatti che i vaccini Moderna e Pfizer hanno un’efficacia del 95%, con J&J la percentuale scende al 72% e con Astra Zeneca all’interno di una forbice molto variabile tra il 62% e l’82%. Con questi dati la percentuale di popolazione che dovrebbe vaccinarsi per arrivare alla soglia che garantirebbe l’immunità di gregge sale al 97%. Un numero irrealistico considerando che non poche persone non intendono vaccinarsi.
Un ulteriore problema è legato alle varianti, contro le quali gli attuali vaccini hanno meno efficacia, e l’incognita dipendente dalla durata dell’immunità, che è tutt’ora un’informazione di cui non si hanno certezze. È per tutte queste variabili che l’immunità di gregge appare un miraggio e sarebbe meglio puntare a una riduzione della letalità, auspicabile con la somministrazione dei vaccini.
L’incidenza dei vaccini
Il vaccino sta già svolgendo il suo compito e ancora una volta sono i numeri a fornire questo risultato. In Italia la popolazione tra gli 80 e gli 89 anni è composta da 3,6 milioni di persone. Di queste, con dati risalenti all’inizio di marzo, ne sono state vaccinate quasi un milione.
Considerando che l’efficacia della prima dose ha effetto dopo circa due settimane e che la seconda serve per fortificare e allungare la durata della prima, i numeri parlano di un abbassamento della letalità del virus dal 7,3% al 5,3%, con una percentuale di immunizzati pari al 27,5%.
Effetti che cambiano a seconda dell’età. Sulle fasce più giovani infatti, fino a 39 anni, la percentuale di letalità del virus è già quasi pari allo zero, naturalmente non tenendo in considerazione quei casi particolari in cui esistono delle patologie pregresse che rendono più pericoloso il virus.
Fino a 49 anni, attualmente, la letalità della malattia è di una vittima ogni 1000 contagiati, ancora una percentuale bassa sulla quale non si riscontrano miglioramenti anche perché le campagne vaccinali non sono arrivate a interessare questa fascia d’età.
Anche tra i 50 e i 79 anni, essendo ancora basso il numero di vaccinati, la pericolosità del virus si è ridotta di pochissimo, mentre è apprezzabile il calo di letalità nella popolazione con oltre 90 anni, tra i quali la percentuale è passata dal 12,8% prima della somministrazione del vaccino all’8,2% odierno.
Ipotesi future
Se la somministrazione dei vaccini continuasse con lo stesso ritmo attuale e le varie case farmaceutiche rispettassero gli impegni presi, si arriverebbe verso la fine di giugno a una copertura della metà della popolazione.
Ma questo potrebbe non bastare per abbattere la letalità del virus e la causa è figlia delle scelte prese dal Governo. Finora infatti i vaccini sono stati suddivisi per fasce di età ma anche per professioni. L’analisi della Gabanelli evidenzia come un gran numero di vaccini fosse stato destinato agli uffici anziché agli anziani, a differenza di quello che è avvenuto nei Paesi esteri.
Questo ha comportato un ritardo di vaccinazione in quelle categorie ritenute più fragili e più esposte al rischio, gli over 80, a favore di ricercatori d’università, docenti, forze dell’ordine che rientrano sotto i 40 anni malgrado le complicanze derivanti dal virus, a quell’età, siano praticamente pari a zero.
Secondo l’ISPI le morti evitate grazie alle vaccinazioni sono state 600, ma sarebbero potute essere 1700 se la campagna vaccinale avesse fin da subito interessato le categorie con età più elevata, come invece hanno fatto Germania o Francia.